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L’“operazione militare speciale” della Russia in Ucraina è infine diventata ufficialmente e a tutti gli effetti, con il discorso di Putin del 21 settembre, una guerra dichiarata non solo contro l’Ucraina ma contro l’Occidente. Un esito inscritto nell’inizio (e neanche tanto implicitamente: si rilegga il discorso di Putin del 23 febbraio scorso), ma accelerato, più che dalla recente controffensiva ucraina, dalla dissennata strategia con cui il fronte atlantista ha reagito alla follia di Putin alimentandola con la gara al rialzo delle armi e con la guerra per procura invece di cercare di disinnescarla con una qualche iniziativa politica di pace. Lo spettro del ricorso all’arma finale, evocato da Putin come ipotesi realistica, si installa nell’immaginario geopolitico globale. Ma non è l’unico. C’è quello di una guerra di trincea lunga e forse interminabile, con un numero incalcolabile di perdite su entrambi i fronti. C’è quello, già materializzatosi, di un’Europa azzoppata economicamente dagli effetti-boomerang delle sanzioni contro Mosca e dalla ritorsione russa sulle forniture di gas, e divisa politicamente, in prospettiva, dalle reazioni sociali, prevedibilmente diverse da paese a paese, alla crisi energetica e all’inflazione montanti. E c’è quello della Federazione russa sull’orlo di una disintegrazione possibile sotto i colpi dei nazionalisti delusi dalla prova di forza fallimentare di Putin, e di un’implosione di regime altrettanto possibile sotto i colpi della diserzione e della fuga di massa dalla “mobilitazione parziale”.

Il salto di scala militare è immediatamente salto di scala politico e geopolitico. E si spera che il terrore per il famigerato bottone nucleare faccia finalmente il miracolo di mettere in testa a una classe priva di senso della storia che la guerra in Ucraina non è una guerra regionale in cui basta schierarsi dalla parte dei valori democratici perché il cattivo perda e tutto torni al posto suo: è una guerra destituente e costituente dell’ordine mondiale, dopo la quale, e comunque vada a finire, al posto suo non tornerà niente. Questione epocale, sulla quale non una sola parola è stato possibile ascoltare nella ridondanza mediatica e comunicativa della campagna elettorale italiana. Dove la guerra ha giocato un ruolo sorprendentemente bifronte.

Per un verso, l’allineamento iper-atlantista è stato l’elemento ordinatore, ma non dichiarato, della crisi di governo (la scissione dell’affidabile Di Maio e l’emarginazione dell’inaffidabile Conte dalla maggioranza di governo), della strategia delle alleanze (l’espulsione del M5S dal “campo largo” di Letta), della legittimazione nazionale e internazionale della probabile vincitrice (la professione di fede atlantista di Meloni, più forte di ogni sospetto di filo-fascismo, di ogni dichiarazione di anti-antifascismo, nonché di ogni prova provata di anti-europeismo). Per l’altro verso, troppo occupata a misurarsi i gradi di atlantismo e di anti-putinismo, l’intera classe politica si è esentata dall’abbozzare una qualche risposta a domande ineludibili come le seguenti: qual è la posta in gioco reale di questa guerra? Qual è l’obiettivo politico, non solo valoriale, dell’appoggio italiano e europeo incondizionato all’Ucraina? Qual è quello della guerra per procura contro Putin? Una qualche negoziazione futura o il crollo del suo regime? La tenuta o la disintegrazione nazionalista della Federazione russa? E quali sono gli effetti non solo economici – bollette e inflazione o peggio, stagflazione – ma politici della guerra e del suo esito sugli equilibri dell’Unione europea?

Lo stesso ulteriore spettro che si aggira in Europa, quello di un rigurgito, se non di fascismo inteso come regime, di forze politiche che alla tradizione fascista si ispirano o non ne prendono congedo definitivamente, ha a che fare con l’interminabile fine degli assetti ideologici e geopolitici novecenteschi che si sta consumando nella guerra in corso. Giorgia Meloni ne è perfettamente consapevole, quando nella sua autobiografia, ancorché pubblicata prima dell’invasione russa dell’Ucraina, connette il riscatto finalmente possibile della destra italiana ed europea, nonché la fine della discriminante antifascista posta a fondamento della Costituzione italiana, alla decomposizione dell’ex blocco socialista iniziata nell’89-’91. E del resto sappiamo bene, o dovremmo, come gran parte delle spinte neo-nazionaliste o sovraniste che non da oggi minacciano l’Unione europea, compreso il sovranismo imperiale di Putin o quello illiberale di Orbàn, provengano proprio da quella decomposizione, che oggi arriva a lambire perfino un paese come la Svezia, storico bastione di una inossidabile socialdemocrazia neutrale convertitosi al militarismo della Nato e investito dall’onda sovranista di un partito con origini neonaziste come SD. Senonché questa – o un’altra – visione dei processi di lungo periodo che stanno sullo sfondo della catastrofe attuale manca interamente nel discorso del Pd, che si guarda bene dal mettere in discussione la sua narrativa trionfale dell’89 e seguenti e dal vedere più in là della crociata contro l’autocrate di turno, e scarseggia anche nella frammentata sinistra radicale e pacifista, che pure si è espressa contro l’invio delle armi in Ucraina, l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato e lo schiacciamento dell’Europa sulla strategia angloamericana. Non si tratta solo di differenze cruciali di posizionamento in politica estera, sono questioni che investono in pieno l’identità e le radici novecentesche della sinistra italiana (ed europea). Che se ne discuta poco o niente è la prima causa di disorientamento che conduce pezzi consistenti del suo elettorato di sinistra a non partecipare al gioco elettorale, o a parteciparvi tradendola.

C’è un ultimo spettro che va menzionato, ed è quello della pandemia. Quelle del 25 settembre sono le prime elezioni generali che si tengono dopo il più forte e inedito trauma che si è impresso, letteralmente, sul corpo, sulla pelle e sull’apparato sensoriale del paese. L’invasione di un microorganismo sconosciuto capace di mettere sotto scacco il primato della specie umana sulle altre, il confinamento e la desocializzazione forzata, la digitalizzazione delle relazioni sociali, i morti in solitudine senza rito della sepoltura, le città svuotate avvolte da un silenzio metafisico, gli esiti nefasti dell’erosione neoliberale del sistema sanitario nazionale, l’importanza cruciale del lavoro degli essential e delle reti di solidarietà, la presa d’atto della comune vulnerabilità, l’urgenza di costruire una società della cura e di mutare radicalmente la concezione antropocentrica della vita del pianeta. Era solo poco più di due anni fa, eppure anche tutto questo è caduto nella rimozione ed è scomparso dal discorso politico pre-elettorale, che pure avrebbe potuto e dovuto giovarsene, soprattutto a sinistra, se la sinistra avesse ancora a che fare con l’immaginazione politica di un cambiamento dello stato delle cose.

Sono rimozioni che si pagano, e non solo perché lo spettro “variante” del virus è sempre lì in agguato. Ma perché quando si separa così nettamente dall’esperienza comune, la politica svanisce. Diventa essa stessa spettrale, seppure apparentemente incarnata da leader onnipresenti che saltellano da un talk all’altro o da un socialnetwork all’altro. Ridarle materialità, al di qua e al di là delle pur determinanti e discriminanti maggioranze di governo che usciranno dalle urne, è il compito improcrastinabile che la probabile deriva verso il peggio ci impedirà di eludere.

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Un commento a “25 settembre, il rimosso e gli spettri”

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